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La chiesa di Sant’Emidio di Poggio Vitellino

Il racconto di Elena Polidori, giornalista La Repubblica, scrittrice di Amatrice non c’è più ma c’è ancora, Neri Pozza, 2018

Forse è giusto far partire questo breve racconto sulla storia di Poggio Vitellino dalla sua chiesa. Era lassù, in alto, sulla cima, a sovrastare il paese: era il poggio del Poggio. Un luogo del cuore per tutti, di generazione in generazione; un punto di ritrovo per grandi e piccoli.

Non si sa esattamente a quando risalga la posa della sua prima pietra. Però si sa che, da queste parti, all’inizio del 1500, era “signore di Amatrice” Alessandro Vitelli, celebre condottiero, conte di Montone, che fu al servizio dell’impero, del Papa e del Granducato di Toscana. Sarà per l’assonanza Vitelli-Vitellino, ma una scuola di pensiero fa risalire a quell’epoca la nascita del borgo e, a maggior ragione, la sua chiesa rupestre, un tempo il perno intorno a cui ruotava la vita delle comunità. Il possibile fondatore era originario di Città di Castello: per affrescare il suo importante Palazzo natio, Palazzo Vitelli alla Cannoniera, scelse Nicola Filotesio, detto Cola dell’Amatrice, uno dei pittori più celebri della zona.
Altre ricostruzioni, collocano la genesi del Poggio, addirittura secoli prima, all’epoca romana, ad opera di una famiglia pure chiamata Vitelli – avi di Alessandro? - che vi fece la sua residenza. Origini antiche, ma purtroppo ancora incerte.
Vi è anche una terza lettura, una vulgata che ci raccontavano sempre, da piccoli, assai più leggendaria perché ha a che fare con l’avvistamento di un vitello d’oro bello fiammante che comparve all’improvviso, in un’epoca imprecisata, nel mezzo di un terreno pianeggiante, situato più in basso, verso Casalene. Di qui, quasi a celebrare questo quadrupede in metallo prezioso, non proprio un esemplare frequente da incontrare, sarebbe scaturito l’insediamento del Poggio.

Sia come sia, parliamo di momenti storici lontanissimi, di diversi secoli fa. Ma, trattandosi di un’area a rischio sismico, color viola nelle mappe dei sismologi, parliamo anche di diversi terremoti fa che avranno ridisegnato l’esistenza delle persone chissà quante volte: “Terribile e spaventoso” quello del 1639, come si legge nella Relazione ufficiale dei fatti successi a “Citta della Matrice e suo stato, con patimento ancora in Accumulo e luoghi circonvicini”. Morte e distruzione, allora e anche dopo, l’ultima nell’agosto del 2016. Ma è bello pensare che, nei secoli, almeno le radici, l’anima degli abitanti sia rimasta il più possibile quella di sempre, di prima.
Quindi sì: la chiesa ha la sua grande importanza.
A vederla, la costruzione era quella classica di tutte le cappelle di campagna antiche: un tetto, un campanile, una piccola canonica molto spartana e senza alcun confort, quasi una cella, anche se una volta i preti ci abitavano, era la loro residenza permanente. La location era da brivido, affacciando questa stanzetta-rifugio in un’ampia aia caratterizzata da una quercia storica, secolare, questa sì segnalata dalle guide: un cartello turistico esiste ancora, all’inizio della strada principale che porta al paesello. Peccato che un brutto giorno, in tempi relativamente recenti, l’albero si è seccato. Un dolore, secondo alcuni perfino un presagio del futuro disastro. Però era una quercia splendida davvero, grande, frondosa, fresca e accogliente. Noi da piccoli ci facevamo la “piciancola”, cioè l’altalena su uno dei suoi rami, quello con davanti il baratro che se non sia mai cadevi rischiavi di finire sulla Salaria. Ci andavamo anche ad ammirare le stelle cadenti.
Dalla parte opposta della chiesa, un altro grande e naturale piazzale con una vista mozzafiato sulla catena dei monti della Laga, dove gli sposi si facevano fare la foto per il loro album dei ricordi. Molto silenzio, al massimo il rumore del vento.
La chiesa aveva anche un bel portone d’ingresso, grande e solido, cui si accedeva attraverso dei gradini di pietra: da poco ne era fortuitamente riemerso uno, datato inizio Ottocento. Questo portone, in linea d’aria, era esattamente di fronte a quello della nostra casa di famiglia, al centro del Poggio, secondo una ideale linea retta: anche questa singolare corrispondenza doveva avere avuto un significato profondo nella visione di un nostro antenato, don Domenico Sartori, vicario di una diocesi che andava dal Poggio fino alle pendici di Pizzo di Sevo, cioè fino a Collalto, denominato “Colle alto” nella scritta marmorea che affiancava la fonte battesimale, subito a destra, all’entrata della chiesa.
Sul lato opposto c’era la porta della campana, un bugigattolo da dove penzolava un enorme cordone: bisognava avere dei bei muscoloni per riuscire a suonarla bene, senza mai rallentare, per non correre il rischio di mandare un messaggio sbagliato. Da queste parti, infatti, la campana è come un telegiornale: avverte dell’inizio delle funzioni, ma anche delle morti e dei nati, se suonate a festa. Scandisce il tempo e le tappe della vita. Un tempo segnalava anche le situazioni di allarme: è stata salvata, dopo il sisma del 2016 da un coraggioso pompiere.
Recuperata anche una tela di un qualche pregio, con cornice e predellino, che ornava uno dei due altari laterali: si tratta di una Madonna immacolata firmata da Enrico Scifoni, secondo la classificazione degli esperti dei Beni culturali. Il quadro è censito e si trova nel presidio di Cittaducale, una sorta di ospedale delle 16 mila opere d’arte e manufatti salvati dalle macerie. Al deposito-hangar è arrivato anche il dipinto del Santo che ornava l’altare centrale: la tela s’era strappata, ma solo in un angolo. Recuperati infine alcuni paramenti sacri e la statua di S. Emidio, cui la chiesa è dedicata: è il protettore del terremoto, sempre invocato quando la terra trittica, molto venerato in tutto il cratere e in particolare ad Ascoli Piceno. Era un manufatto a grandezza naturale, il santo appariva giovane, con un bel manto rosso ad avvolgergli le spalle e la tunica bianca, la mitra e il pastorale da vescovo ornati d’oro. Ai suoi piedi, una torre di marmo spezzata in tre dalle scosse, che tuttavia stava in piedi. Il tutto appoggiato sopra una specie di tavolino.
Il 5 agosto di ogni anno, la festa del patrono, quattro uomini infilavano due bastoni negli appositi buchi del tavolino e con estrema cura portavano la statua in giro per tutto il paese: era pesante e pure instabile. Ora, è vero che per l’Italia di processioni ce ne sono a bizzeffe, però questa era quella del Poggio ed era festosa, spesso accompagnata da “i botti”, in passato perfino dai fuochi d’artificio che ogni volta c’era il terrore che qualcuno si facesse male.
Era una cerimonia molto sentita, preparata con amore e in largo anticipo, con tanto di raccolta fondi porta e porta e successivo bilancio. Tutte le stradine del Poggio venivano ornate con festoni e bandierine, che andavano da una parte all’altra del corso, il centro storico del paese, un’isola pedonale ante litteram, la gioia di tutti i bambini: gioco libero, senza macchine e quindi senza troppi pericoli. Fino a qualche decennio fa, mica tanto, la festa religiosa all’imbrunire diventava danzante e serviva anche ad incontrarsi, oltre che a divagarsi: tanti matrimoni sono nati così, durante quei balli “lenti”. In anni recenti, s’era come prolungata con una cena preparata dagli chef del paese, che non mancavano essendo il cibo parte integrante della cultura culinaria del posto: cucine da campo e tavoli da pic nic sistemati lungo tutto il Corso.
Da piccoli, a casa, proprio il 5 agosto, per tradizione, si preparava un brodo di gallina che bolliva dal mattino, per ore. Venivano i preti, a pranzo - ed erano almeno tre. Bisognava vestirsi bene per l’occasione ed essere molto educati a tavola.
E allora, era bella la chiesa del Poggio? Sì, lo era, anche se non aveva dipinti particolarmente preziosi o sculture speciali come molte delle altre “cento chiese”, indagate per la prima volta tutte insieme da un’amica storica dell’arte, in un corposo volume dedicato ad Amatrice e ai tesori del suo territorio. S’era preventivato di fare con lei un week end culturale a casa, al Poggio, con visite guidate tra le meraviglie artistiche raccontate nel libro, ma il sisma è arrivato prima. Meno male comunque che l’ha scritto: si è rivelato utile per classificare e archiviare le macerie.

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